John
Hartford ci ha lasciato, il 4 giugno: la notizia mi ha appena raggiunto, e mi
ha colpito. Colpito duramente: non ero mai stato così colpito dal tempo della
morte di Bill Monroe.
Il fatto
è che John Hartford era giovane, troppo giovane, appena 63 anni. Ed era uno di
quei personaggi che si pensa ci sono e ci saranno sempre, e solo da poco la sua
malattia, un linfoma non-Hodgkins, era stata resa nota. Ed infine, sorrideva.
Sorrideva sempre.
Al di là
del personaggio, il cui caratteristico look con bombetta e calzini rossi era
inconfondibile, e del musicista, rimane l’artista, e soprattutto l’Uomo.
L’artista era quello che, nato a New York, ma cresciuto nel Missouri, amava la
sua musica come pochi altri al mondo, e che suonava il banjo ed il fiddle forse
non con virtuosimi esasperati, ma sempre mettendoci quello che un vero artista
ci mette: l’anima e, soprattutto, il cuore.
Suonava
bluegrass, country, e soprattutto old time: ma, probabilmente, lui non
etichettava niente. L’Uomo è quello che amava la musica, e la amava semplice.
Amava anche il grande fiume, quello che bagna il Missouri per così lungo
tratto. Lo amava a tal punto da non solo dedicarci un intero, ormai vecchissimo
e forse dimenticato album, intitolato Mark Twang, ma da trascorrerci
tutto il tempo che la musica, e la malattia, gli lasciavano: era pilota di
battello abilitato per tutto il Mississippi, con tanto di patentino. E lo
usava.
Le sue
canzoni le conosciamo credo tutti, anche se magari a volte non sappiamo che le
aveva scritte lui. E la sua Gentle On My Mind (incisa da tutti, Elvis,
Aretha Franklin, Marty Stuart, tutti) mi dicono essere la canzone più trasmessa
per radio di tutti i tempi dopo Yesterday (non in Italia: ma, questa, è
un’altra storia). Ma lui amava le cose semplici, e le emozioni semplici, ed
aveva rinunciato ai fasti di Nashville e di Hollywood per rimanere vicino alla
sua musica di sempre, quella che amava fin da quando era bambino.
Ho avuto
la fortuna, ed il privilegio, di ascoltarlo dal vivo, con tutta la sua banda:
sono stato attento come in poche altre occasioni, e ricordo che in pochi minuti
l’artista era riuscito a trasformare l’ilarità suscitata da una buffissima
canzone su due anziani coniugi intenti a guardare lo scorrere di un fiume,
nella profondissima malinconia per la storia dell’infanzia infelice di un certo
bimbo del Kentucky con gli occhi storti. E l’Uomo aveva fatto sì che queste mie
emozioni fossero vere, come se si parlasse di me. Era già malato, e non lo
sapevo: la sua, sembrava una tosse di stagione, niente più. E lui ne rideva,
quando i membri della banda gli porgevano un bicchier d’acqua per alleviarla.
Ed ancora
lo ricordiamo in tanti programmi TV di cui ci sono giunte le cassette, od
intento ad intervistare, no anzi, a chiacchierare con Bill Monroe. Con cui,
ora, è certamente tornato a suonare, tranquillamente, senza impegno, come ai
vecchi tempi.
Siamo noi
che rimaniamo, che ora siamo un po’ più soli.