QUESTO NON E' UN ALBUM DI
COUNTRY MUSIC. Per celebrare i suoi sessanta anni ed il ritorno alla major alla
quale ha legato il sue periodo più prolifico (a tratti rasentando
l'inflazione), Willie Nelson ha voluto realizzare un CD dalla durata di oltre
60', registrato splendidamente parte nei suoi Pedernales Studios di Spicewoods,
TX e parte al Power Station di New York, chiamando a sé una folla di ospiti tanto
eterogenea quanto qualificata, agendo egli stesso da elemento catalizzante per
fondere i singoli talenti compositivi ed esecutivi in un unico amalgama
incredibilmente omogeneo ed attuale.
QUESTO NON E' UN ALBUM DI
COUNTRY MUSIC. Uniche concessioni al genere a lui più consono sono i due omaggi
alla penna compositiva di Lyle Lovett, Farther Down The Line e If I
Were The Man You Wanted, registrate con la sua fedele band arricchita per
l'occasione da Johnny Gimble, David Crosby e Benmont Tench, noto gregario di
Tom Petty.
Un album così americano
da tempo non capitava di ascoltarlo ed è con immenso piacere che le nostre
orecchie attente catturano armonie acustiche delle chitarre di Willie e di Paul
Simon nell'iniziale American Tune. A distanza di venti anni il brano non
ha perso carisma e l'interpretazione del nostro la rivitalizza, la
personalizza, la ‘nelsonizza’ (me lo passate?) profondamente. Willie è
soprattutto un grandissimo interprete, ogni canzone che entra nel suo
repertorio sembra uscita dalla sua vena compositiva, ha uno stile
personalissimo. La sua voce, come quelle di Springsteen, Cash o Dylan (illustre
duet-vocalist in Heartland. brividi a profusione!) si ama o si odia, non
le si può restare indifferenti: c'è, troppa vita vissuta dietro quelle sonorità
nasali e roche per non fare vibrare quel po' di cowboy che alberga in ognuno di
noi (Chris LeDoux docet).
Gli antipodi musicali
Willie li tocca nel duetto con Sinead O'Connor di un brano scritto da Phil
Collins, Don't Give Up, che difficilmente si giustificherebbe da un
punto di vista concettuale, se non fosse per il testo recitato da Willie che
assume netti connotati autobiografici: “I was taught to fight/Taught to win/l
never thought I could fail/No fight left or so it seems/l am a man whose dreams
have all deserted/No one wants you when you lose". Uno sviluppo molto
soffuso con un finale decisamente atipico in un economia nelsoniana, ma di
presa sicura.
Il gioiello già citato
che nasce dalla collaborazione compositiva (si dice a mezzo telefax) di Willie
con Bob Dylan, Heartland, eseguita dai due in chiave folk con precisi
riferimenti di supporto agli agricoltori americani, costantemente alle prese
con rapaci banchieri affamati di terra (non dimentichiamo che Willie è tra i
fautori dell'annuale Farm Aid). L'entrata di voce di Dylan, quanto di più
disarmonico si riesca a immaginare: ma i due sono riconosciuti
capiscuola come vocalists. anche se nessuno ha mai tentato di imitare la voce
di Willie, contrariamente a quanto accaduto a Dylan.
Across The Borderline, title track e ben nota border
song - anche - di cooderiana memoria, ci offre un'ulteriore occasione di
assaporare preziosismi acustici (Willie bravissimo alla solista) e morbide
sonorità solari condite dalle background vocals di Kris Kristofferson, partner
di Willie insieme a Jennings e Cash negli Highwaymen.
In questo CD Willie
rilegge un ampio spettro di musica americana, dal blues di I Love The Life I
Live (genere con cui Willie si era già cimentato con successo fin dai tempi
di Funny How Time Slips Away del '62 o Night Life del '65) al
cantautore colto del Dylan di Oh Mercy (What Was It You Wanted) e del
Paul Simon di Graceland, per arrivare ad una rivisitazione dì se stesso,
passato (She's Not For You del '62) e presente (due inediti in Valentine
e Still Is Still Movin' To Me, mai registrata in studio, ma parte dei
suoi recenti live acts. Anche se sicuramente atipico in un contesto specifico
come quello della nostra rivista, Across The Borderline ci restituisce
un Willie Nelson inossidabile ed in eccellente forma, pronto a ritornare…. ‘on
the road again’!