Lo stesso Scott Kirby ama autodefinirsi un discendente del movimento cantautorale degli anni ’70 e la descrizione della sua
musica calza a pennello con questi suoni che devono molto alla countrymusic come al folk revival, senza dimenticare rock e
pop.
All’ottavo disco solista l’artista
nato nel New Hampshire e durante l’anno residente tra Maine e Montana, tributa
omaggio a quello che ogni tanto è il suo ‘buenretiro’, il luogo dove ricaricarsi ed
ispirarsi: Key West, Florida.
Negli anni Scott Kirby ha avuto la possibilità di esibirsi a fianco di
alcuni dei suoi musicisti preferiti tra cui Tom Rush,
Jimmy Buffett, MacMcAnally,
Carole King e Livingston Taylor e già questi nomi la
dicono lunga sulle intenzioni e sulla direzione delle sue canzoni. ChasingHemingway’sGhost, prodotto da Andy
Thompson, chitarrista che con il fratello Matt ha fatto cose importanti a
Nashville soprattutto negli anni a cavallo tra i novanta e i duemila, è un
disco estremamente piacevole, per certi versi sorprendente per gusto melodico e
capacità di sintesi delle influenze del protagonista, una raccolta di brani che
al tempo stesso mostrano un autore sensibile e un interprete dal tocco
brillante.
Dai momenti più (soft) rock in cui
si avvicina, con tutto il rispetto per gli originali, a Springsteen e Mellencamp come nell’iniziale ThisPlaceIsMy Home e nellatitle-track a ballate comeLa Casa CayoHueso, vicina a certe cose di James Taylor, MotherWinterdove
l’amore per la natura lo avvicina al primo John Denver e come nella movimentata
e ‘folkie’ Morning In Montana dove
fa la parte del leone il fiddle di EamonMcLoughlin, Scott Kirby riesce ad emergere con una personalità non comune
facendo sue le lezioni dei musicisti che lo hanno influenzato ma aggiungendo
sempre qualcosa di suo, cosa non sempre scontata. La scelta delle cover è poi significativa, seppur in presenza di una notevole diversità
tra le due e se WeOwn Key West di
Clint Bullard è quasi obbligata visti gli argomenti,
meno usuale è la pigra e cadenzata Summer Wind,
classico di Johnny Mercer (e Heinz Miller) nelle
‘mani’ di Frak Sinatra qui in una rilettura più intima e comunque sempre
soffusamente jazzata.