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Anche Jerry Douglas s’è rifatto il look. Non sarebbe la prima volta:
cangiante come pochi, nel corso della sua ultraventennale carriera il dobroista
più veloce del mondo ha mutato più volte aspetto, ingrassando e dimagrendo,
gettando gli occhiali e applicando le lenti, facendosi crescere i capelli o
tagliandoli in fogge strane, ora più campagnolo ora più urbano
nell’abbigliamento.
In Lookout
For Hope appare più grintoso del solito: vestito di nero, pizzetto ben
scolpito, colpi di sole in testa, il nuovo Gibson JD model che porta il suo
nome tra le braccia (ah, la pubblicità!), Jerry cammina in un bituminoso contesto da archeologia industriale,
avendo alle spalle una classica skyline americana.
L’immagine
corrisponde, in buona misura, alla musica: jazzata, nervosa, metropolitana, a
tratti romantica, sempre virtuosistica, come se Lookout For Hope (il
titolo viene dal brano omonimo di Bill Frisell che Douglas ripropone in una
versione estenuante di 10 minuti) sancisse un’ulteriore tappa verso quella
ridefinizione ‘totale’ dello strumento.
Magari è
solo un’impressione provocata dall’ascolto ravvicinato dei due cd: eppure Lookout
For Hope suona quasi come una risposta al Rob Ickes jazz di What It Is,
una sfida a distanza tra il maestro che (forse) si sente insidiato dall’allievo
ormai assurto a vette di sicuro magistero.
Detto
questo, Douglas è sempre Douglas: il suo fraseggio è inventivo, mai pigro o
scontato, il tono caldo e avvolgente, il timing da brivido (sia quando scatena
il suo dobro, sia quando arpeggia sulla più dolce Kona guitar).
Undici
brani, due dei quali cantati (Footsteps Fall da Maura O’Connell, The
Suit da James Taylor), un giusto equilibrio tra atmosfere rockeggianti ed
episodi lirici, una sorpresa nella variegata band che accompagna il titolare:
accanto ai ‘soliti’ Bryan Sutton, Sam Bush, Barry Bales, Stuart Duncan, Victor
Krauss, eccetera, compare il sassofonista Jeff Coffin, attuale membro dei
Flecktones.
L’innesto,
sia in Cave Bop sia in The Wild Rumpus, è spiazzante, curioso,
certamente potente: è possibile che qualche purista del dobro ‘vecchia maniera’
resti sconcertato, ma la nuova frontiera della chitarra resofonica passa anche attraverso
queste contaminazioni ardite, del resto già praticate da banjoisti come Tony
Trishka e Béla Fleck.
Disco
curioso, dunque, piacevole, non solo per dobroisti assetati di note: tanto il
modello è irraggiungibile, e si direbbe quasi che, maturando, Douglas si
diverta un po’ a inventare scale sempre più complesse, a introdurre passaggi
sempre più frastornanti, in modo da scoraggiare ogni possibile epigono.
Chiamatelo ‘Jerry’s Touch’.
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